lunedì 15 agosto 2016


“Stiracchia gli arti rattrappiti, si dà una scrollatina, srotola la coda e assume forma di gatto. Anzi, di gattone.
Grigio chiaro con zampe tigrate, tipo contrada del Palio di Siena, occhi verdi da mongolo, gorgiera di collana grigia e nera sotto a due ganasce da cartone animato.
Se avesse mantello e stivali potrebbe essere il gatto del marchese di Carabas, un tripudio di micio, anche se lievemente destabilizzato”.
Ecco Giuda, un imponente micio, fare il suo ingresso trionfante già dall’incipit di questo romanzo, in una mattina ordinaria che ordinaria non lo sarà affatto.
Il micione è stato chiesto  “in prestito” al suo padrone (che brutta parola per la protagonista) per mettere fine alle richieste di amore della gatta Micioara, in perenne calore.
Quello che la protagonista pensava si sarebbe risolto in pochi minuti, diventa però una vera odissea. I due gatti si rincorrono miagolando ferocemente per tutta la casa, rompendo l’impossibile e urinando dappertutto, in una lotta d’amore che sconcerta la padrona, la quale, nonostante il trambusto, deve anche recarsi al lavoro (si può ben capire con quale stato d’animo e concentrazione).
La giornata trascorre in questo modo tra tonnellate di croccantini, lamentele e minacce dei vicini, telefonate invadenti della madre, per niente amante degli animali, e consigli saccenti di sedicenti amici gattofili.
Il romanzo è un lungo monologo della protagonista, che descrive con un ritmo esagitato (e non può essere altrimenti) ciò che sta avvenendo in questa giornata particolare, con tratti a volte comici, che fanno sorridere e fanno perdonare alcuni concetti che ripete un po’ troppo spesso. La “padrona” di Micioara, prende spunto poi, dall’esuberanze amorose dei due mici, per riflettere con un po’ di malinconia, anche sulla propria vita, sulla propria solitudine, su quella sorta di maleficio che è calato sulle due “femmine” della casa, che chissà, Giuda, con la sua irruenza virile riuscirà a spezzare.
“Mi esortava Micioara a riappropriarmi di qualcosa che mi apparteneva, a tornare nel bosco dove io mi do pace, a non dimenticare la mia parte animale, della quale troppo spesso noi umani ci dimentichiamo, perché reimparare a vivere dagli animali è fondamentale se uno vuole salvarsi.
Hai freddo?Rintanati. Piove? Non uscire. Non hai fame? Non mangiare. Ti senti la febbre? Mettiti a dormire. Qualcosa ti fa male? Evitala”.

L’autrice in questo romanzo ha saputo con lodevole padronanza gestire una storia che sarebbe potuta cadere facilmente nel banale, riuscendo ad incastrare senza stonature elementi divertenti e introspettivi insieme. Una bella storia che lascia alla fine il lettore con un animo più leggero e sorridente senza però negargli il dolce retrogusto di una bella morale come lo possono fare solo le più belle favole.

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